E se Trump fosse un’opportunità per l’Europa?

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By Francesco Paolo Sgarlata |

E se Trump, senza volerlo, si rivelasse uno dei più importanti artefici di una maggiore integrazione europea?

La sua politica estera sta costringendo anche i più reticenti paesi europei a rendersi conto della propria irrilevanza e della necessità improcrastinabile di unire le proprie forze, almeno per quanta riguarda la difesa e la politica estera comune, per contare qualcosa.

Lo stesso vale per i tanto minacciati dazi. Il fatto che Trump negozi separatamente con ciascun singolo stato europeo è da un lato un fattore disgregante, perché favorisce la gara di ciascun governo a spuntare condizioni migliori rispetto agli altri; dall’altro lato, non si capisce cosa deve ancora succedere perché i leader europei si rendano conto dell’importanza fondamentale di una politica unitaria anche in questo campo, in modo da avere un decisivo potere contrattuale collettivo così come dovrebbe succedere per esempio nel caso dell’approvvigionamento energetico. Se non ora, quando pensiamo di farlo?

Quali ulteriori stimoli – maggiori di quelli che l’attuale situazione geopolitica mondiale ci impone – servono ancora per convincere i nostri leader a portare a termine il processo di integrazione europea?

Il recente, spettacolare contrasto avvenuto alla Casa Bianca tra Zelensky e Trump dimostra una volta di più come siamo entrati in un’era politica completamente nuova rispetto al passato. Si è girata una pagina importante.

L’aspro, cinico, franco, mercantesco e a volte sguaiato approccio di Trump non significa che il presidente americano sia per forza il satanasso che diversi media, spesso pregiudizialmente schierati, dipingono.
Molte testate hanno scritto che l’incontro era in sostanza una trappola tesa da Trump e Vance ai danni del leader ucraino. Ma perché avrebbero dovuto farlo, se questi veniva per firmare un accordo di concessione di sfruttamento delle terre rare a favore degli Usa e per dare seguito al processo di pace iniziato proprio da Trump?

A coloro che hanno visto non solo lo scontro, ma tutti i quasi cinquanta minuti dell’incontro – disponibile del resto anche su Youtube – non può essere sfuggito che per ben quaranta minuti tutto è andato abbastanza bene, anche se Zelensky ha esordito definendo Putin un assassino e un terrorista di cui non ci si può fidare e con il quale non si possono fare compromessi.

Ora, come hanno avuto modo di rilevare poche voci fuori dal coro, se Zelensky ha le sue ottime ragioni per avere questa opinione, certamente non si può negare che queste dichiarazioni non siano un buon incipit per quello che avrebbe dovuto essere un incontro preparatorio di pace. Per giunta, dichiararsi non disponibile a compromessi è irrealistico, dato che un accordo di pace è per definizione un compromesso dove entrambe le parti si accordano rinunciando ad alcune cose per guadagnarne altre. Affermarlo davanti alle televisioni di tutto il mondo, all’inizio di un incontro che ha dichiaratamente lo scopo contrario, è quantomeno fuori luogo.

Ma a dispetto di questo, l’incontro è comunque proseguito abbastanza bene fino a quasi dieci minuti dalla fine, quando Vance è intervenuto parlando dell’importanza di una soluzione diplomatica alla guerra, cosa che secondo lui Trump sta facendo.

La sensazione è che da quel momento la situazione sia scappata di mano: Zelensky a quel punto ha chiesto a Vance di che diplomazia stava parlando, dal momento che dal 2014 nessuno era intervenuto a favore dell’Ucraina, nonostante Putin avesse invaso una parte significativa del paese e non avesse rispettato alcun accordo siglato con lui. In altre parole, sostenendo che la soluzione diplomatica con Putin non ha senso e contraddicendo in pratica il suo interlocutore.

La risposta eccessivamente piccata di Vance ha fatto salire la tensione, e Zelensky non si è tirato indietro nel battibecco che ne è seguito, a quel punto anche con Trump il cui temperamento sanguigno è saltato fuori.

Il leader ucraino ha poi buttato benzina sul fuoco affermando che l’Ucraina è stata sola dall’inizio della guerra, al che Trump gli ha ricordato, non a torto, che gli Usa gli hanno dato 350 miliardi di dollari e che senza le loro forniture militari la guerra sarebbe finita in due settimane. Gli ha ricordato infine – non certo con tatto, ma con aspro realismo – che se può fare il “duro” è perché ha gli Stati Uniti alle sue spalle.

Il resto è già storia.

Quello che fino a poco tempo fa ci si diceva dietro le quinte, ora si esterna in pubblico. Il che non è sempre un bene. La rivoluzione geopolitica in atto non è solo nei fatti, ma anche nei modi, a volte spiacevoli.
La ruvida ma realistica posizione di Trump non fa che portare alla luce del sole un rapporto che, anche se spesso ammantato da idealismi di facciata, esiste da sempre: quello di subordinazione tra patrònus e clientes per gli antichi romani, o tra il signore e i suoi vassalli nel medioevo. E’ il signore che decide e detta le regole, non il vassallo.

Zelensky se ne è già reso conto ed è tornato a più miti consigli. Essere vaso di coccio tra vasi di ferro non è mai stato comodo: forse se ne stanno finalmente accorgendo anche i singoli stati del vecchio continente: da soli non si conta più nulla di fronte alle superpotenze.

Una maggiore integrazione europea è l’unica strada per non essere vassalli di nessuno.

Francesco Paolo Sgarlata
Editorial Director

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