by Francesco Paolo Sgarlata |
L’annessione da parte di Putin delle nuove regioni di Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia ha comportato come conseguenza automatica l’equiparazione di qualsiasi tentativo di loro riconquista da parte di Kiev a un attacco alla Russia stessa. Una mossa arbitraria quanto furba, che rivela da un lato una certa debolezza sul campo e dall’altro pone Putin nella quasi impossibilità di tornare indietro senza perdere la faccia. Il che non è un bene.
Il referendum in queste regioni, con i soldati russi armati ai seggi, con le schede compilate davanti a tutti e inserite aperte nelle urne trasparenti è stato sicuramente una farsa.
Ma d’altra parte è altamente probabile che, se non con queste maggioranze bulgare, i residenti di queste regioni avrebbero comunque votato per l’annessione già prima della guerra.
In qualsiasi modo, un’annessione con la forza, come quella che Putin ha ordinato, non è assolutamente ammissibile e ricorda molto le annessioni compiute da Hitler per riunire le etnie germaniche presenti al di fuori dei confini patri prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
A parte ciò, è risibile che una nazione enorme come la Russia, la più grande del mondo, la cui estensione va dall’Europa allo stretto di Bering, e che confina a sud con Cina, Mongolia e Kazhakistan, si senta “accerchiata”: anche questo ricorda molto la propaganda hitleriana dell’assoluta necessità per la Germania di uno sbocco ad est.
A dispetto della propaganda interna, stupisce poi come i russi – che al contrario dell’epoca dell’Unione Sovietica sono ancora liberi di viaggiare e di vedere la realtà – non sappiano che non esiste alcuna volontà occidentale di distruggere la Russia, come viene invece loro raccontato dalla propaganda politica interna.
Stupisce altresì come il leader di una nazione così enorme sia disposto a correre il rischio di generare un conflitto catastrofico per occupare quattro regioni che, in proporzione alla Russia, sono piccolissime.
Purtroppo, però, ultimamente abbiamo constatato che viviamo un’epoca di scenari che, sebbene incredibili, possono diventare assurdamente reali e pericolosissimi per tutti, in una spirale che può andare fuori controllo.
Sembra che la situazione bellica nei territori contesi stia evolvendo in modo negativo per l’esercito russo e la mobilitazione parziale potrebbe non cambiare le cose, almeno nel breve termine.
Se da un lato questa può apparire come una bella notizia per gli ucraini, in realtà alza terribilmente la tensione perché mette con le spalle al muro Putin, che con la cerimonia di annessione dei nuovi territori si è messo in una posizione da cui non può più tornare indietro.
E mettere con le spalle al muro un despota che dispone di migliaia di testate nucleari può scatenare decisioni ancora più sconsiderate da parte sua, che a loro volta possono portare a evoluzioni imprevedibili.
Probabilmente Putin non è talmente pazzo da compiere atti estremi che gli si ritorcerebbero inevitabilmente contro e che lo metterebbero ancora di più in una strada senza uscita. Ma vogliamo correre ugualmente questo rischio?
In Occidente l’Europa sta già pagando il prezzo più caro, con le sanzioni che sembrano fare più danno a noi che a Putin: non abbiamo certo bisogno di essere esposti anche al pericolo di un potenziale conflitto nucleare.
E allora, l’unica strada percorribile, obbligata, è il negoziato.
“Negoziato” significa che due o più parti si siedono a un tavolo e cercano un accordo facendosi reciproche concessioni. Come fecero anche Kennedy e Chruščёv, ponendo fine alla crisi di Cuba.
E questo deve valere sia per Putin che per Zelenski, al quale andrebbe fatto capire che, perché l’Ucraina possa ricominciare la sua ricostruzione e prepararsi un futuro all’interno dell’Unione Europea e forse della Nato, deve essere disposto anche lui a concedere qualcosa per far tornare la pace.
E’ vero, l’aggressore è sempre dalla parte del torto, ma sembra che dal 2014 neppure gli Ucraini siano stati molto teneri con le etnie filorusse presenti sul loro territorio.
Ciò non giustifica certamente un’annessione con la forza ma, pur riconoscendo e condannando questa realtà e le atrocità conseguenti – con Putin e Zelenski che continuano ad alzare drammaticamente i toni e non si risparmiano bombardamenti e attentati – l’Occidente ha il dovere, in primis verso i propri popoli, di non lasciarsi trascinare in una pericolosissima escalation che non si sa dove può finire, e di spingere i due contendenti a trattare.
Uno step fondamentale verso un accordo potrebbe essere costituito da un nuovo referendum nei territori contesi, compresa la Crimea, alla presenza stavolta di osservatori internazionali.
I due contendenti dovrebbero impegnarsi a riconoscerne l’esito, quale che fosse.
Dalla pace abbiamo tutti da guadagnare: per l’Ucraina c’è la ricostruzione, l’adesione all’Europa e forse alla Nato, per Putin la fine delle sanzioni e la possibilità di togliersi dal vicolo cieco in cui si è ficcato, per il resto del mondo il ritorno a una situazione geopolitica più rassicurante e a uno scenario economico internazionale più stabile.
Sarà fatta così completa giustizia?
Completa, probabilmente no. Ma la giustizia a qualsiasi costo, anche a quello di un conflitto nucleare, è un prezzo inaccettabile.
La definizione “a qualsiasi costo” lasciamola alla retorica putiniana.
Per tutti – e in primis per i leader occidentali – è il momento indifferibile della realpolitik della pace da perseguire con assoluto pragmatismo, rifuggendo qualsiasi scelta di matrice ideologica.
Francesco Paolo Sgarlata
Editorial Director