by Francesco Paolo Sgarlata |
«La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi.” diceva molto acutamente von Clausewitz. E aveva ragione. Ma era il 1832.
Tecnologicamente parlando, il divario tra la potenza delle armi che erano a disposizione degli eserciti di allora rispetto a quelle che esistono oggi è quello tra il cannone ottocentesco o il fucile ad avancarica e la bomba nucleare del XXI secolo.
Se la guerra all’epoca del famoso generale prussiano era qualcosa di accettabile e addirittura prima o poi inevitabile, il livello di distruzione totale che potenzialmente può essere scatenato da un conflitto tra le superpotenze di oggi impone di escludere categoricamente la guerra dal novero delle opzioni, a meno naturalmente di un attacco diretto al proprio Paese.
E’ ancora troppo viva la memoria delle immani devastazioni della seconda guerra mondiale e dei milioni di morti che questa ha provocato per non capire che oggi le conseguenze sarebbero infinitamente peggiori.
Ma per fortuna l’uomo comune di oggi ha una maggiore consapevolezza e un più profondo disincanto, almeno in Occidente. Non ci sono più i contadini analfabeti che andavano a morire a centinaia di migliaia nelle trincee della grande guerra solo perché dicevano loro di farlo. Già all’epoca del Vietnam i giovani erano più informati, più presenti, e molti di loro non capivano perché dovessero andare a farsi ammazzare in un Paese che stava dall’altra parte del mondo.
Oggi – ribadisco, almeno in Occidente – siamo tutti più consapevoli, e per fortuna molto probabilmente quasi nessuno accetterebbe di correre il rischio di vedere distrutta la vita propria e quella dei propri cari, i propri averi, la propria casa, il proprio mondo, se non per difendersi.
Il concetto di difesa e il suo ambito – questo è un fatto – d’altra parte può essere allargato e deformato a dismisura dalla propaganda: tornando al Vietnam, ai giovani che andavano là a combattere veniva detto che difendevano i valori americani. Ma era una tesi che non poteva reggere davanti agli orrori che questi ragazzi erano chiamati a vivere quotidianamente. Ed infatti gli Usa furono sconfitti.
Se la distruzione totale è il prezzo che si potrebbe essere chiamati a pagare, la guerra non è più un’opzione.
La nostra stessa costituzione, scritta all’indomani della seconda guerra mondiale da coloro che ne avevano vissuto le atrocità, recita che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.”
La scelta del termine “ripudia” anziché “rifiuta” rende molto bene la condanna totale e assoluta della guerra da parte dei costituenti, anche se presentata come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
D’altra parte, i nuovi traguardi in fatto di potere distruttivo che la tecnologia moderna consente agli armamenti hanno tolto qualsiasi velo avventuroso ed eroico alla guerra.
Come ha ben scritto John Keegan nel suo saggio “Il volto della battaglia”, la differenza tra Azincourt, Waterloo e la Somme consiste primariamente non solo nella potenza, ma soprattutto nell’ampiezza del raggio di distruzione della battaglia stessa. Se nel 1415 bastava allontanarsi qualche centinaio di metri dal campo di battaglia per restarne fuori, sul fronte occidentale della Grande Guerra tutto era devastato per centinaia di chilometri.
Figuriamoci oggi. Razzi, droni teleguidati, missili intercontinentali: la tecnologia ha privato la guerra del solo lato epico che aveva, ed è rimasta solo la morte.
E allora diciamo, urliamo ai nostri governanti un no irremovibile a qualsiasi atto che porti a una possibile escalation del contrasto tra Occidente e Russia.
Evocare la possibilità di una guerra come conseguenza di un’altra guerra, che del resto si condanna, è quanto di più stupido possa esserci.
Ci siamo già passati. Il conflitto tra Austria-Ungheria e Serbia doveva restare circoscritto e poi, incredibilmente, nel giro di un mese la situazione è sfuggita di mano a tutti.
Ma sono trascorsi più di cento anni da allora e il mondo è profondamene cambiato, anche se la natura umana – dirà più di qualcuno – non cambia mai.
Ecco perché non possiamo permetterci che questa pericolosa situazione degeneri ulteriormente, ecco perché bisogna lasciare sempre aperta la strada al dialogo. È un dovere assoluto.
Ripudiare la guerra non vuol dire restare indifferenti di fronte a quanto sta accadendo in Ucraina.
I nostri leader devono utilizzare tutte le leve economiche, diplomatiche, finanziarie, logistiche e tecnologiche necessarie per imporre la cessazione delle ostilità.
Ma la guerra, quella non è un’opzione.
La guerra non è più la continuazione della politica con altri mezzi, come diceva von Clausewitz.
La guerra oggi è il sommo fallimento della politica.
La guerra oggi può essere la fine di tutto.
Francesco Paolo Sgarlata
Editorial Director