by Francesco Paolo Sgarlata |
Forse non tutti se ne sono resi conto, ma uno degli effetti più eclatanti della pandemia e dell’attuale guerra tra Russia e Ucraina è la fine della globalizzazione.
Perché funzioni, infatti, la globalizzazione ha come presupposto imprescindibile che non ci siano emergenze – appunto – a livello globale.
Qualunque problema che interrompa o rallenti la rete mondiale di approvvigionamento di materie prime e prodotti finiti mette in crisi il sistema stesso.
Tensioni geopolitiche a livello locale possono disturbare la globalizzazione, ma non la mettono in discussione. Una pandemia, o una guerra che comprometta i rapporti tra nazioni di primaria importanza, certamente sì.
Ricordate quando il Covid arrivò in Europa e non avevamo più neppure la semplice tecnologia per fabbricare delle banali mascherine?
Delegando alla Cina gran parte della produzione mondiale non solo abbiamo bruciato milioni di posti di lavoro in Occidente, non solo abbiamo perso preziosi know how, ma ci siamo messi alla mercé di questo gigantesco “fornitore” che, quando vorrà, potrà metterci in ginocchio semplicemente rallentando o fermando la distribuzione dei prodotti.
Che dire, per esempio, del fatto che molte aziende europee sono costrette a sospendere le loro produzioni perché mancano gli essenziali microchip provenienti dall’Asia?
Taiwan detiene il 60% della produzione globale, la Sud Corea il 19% e la Cina il 6%: in tutto fa l’85%. L’Europa è assolutamente residuale con il 7%, e non va molto meglio neanche per gli USA con l’8%.
Ci rendiamo conto che i microchip oggi sono componenti essenziali per qualsiasi macchinario, dalle auto ai computer, dalle lavatrici ai telefonini, dagli aerei alle navi?
Delegando ad altri la loro produzione – così come quella di centinaia di prodotti essenziali – è come mettere la testa dentro a un cappio, dando la corda in mano a chi li produce dall’altra parte del mondo.
Questo è uno degli enormi pericoli della globalizzazione, che ci è stata mostrata come la panacea di tutti i problemi ma che in realtà ha solo reso ancora più ricche le multinazionali facendo perdere, come si diceva, milioni di posti di lavoro in Occidente e omologando usi e costumi di popolazioni trattate non più con una logica sociale, ma di mercato.
Quanti operai italiani hanno perso il loro lavoro a vantaggio degli operai cinesi? E’ giusto questo? Qual è il costo sociale di tutto ciò? Si fa presto a dire che queste persone devono riconvertirsi, ma come? Le nuove tecnologie bruciano più posti di quanti ne creano: basta andare in banca per vedere come gli sportelli automatici stanno sostituendo gli impiegati, per non parlare poi dei caselli delle autostrade. Cosa farà tutta questa gente? Tutti riconvertiti nel turismo, nell’ enogastronomia e nella cultura, gli unici settori che non ci possono rubare? Molto improbabile.
Una nazione che perde il proprio tessuto produttivo perde la propria autonomia perché diventa debole e vulnerabile.
Diciamolo chiaramente, urliamo una volta per tutte questa realtà: la globalizzazione è una gara a trovare il più povero allo scopo di assicurare maggiori margini di profitto per una ristrettissima fascia di persone.
Sono state delocalizzate produzioni e tolti i posti agli operai occidentali a favore di quelli cinesi, ora sembra che il Vietnam sia ancora più conveniente della Cina, e poi chi ci sarà?
La gara immorale alla ricerca del più povero è senza fine.
Delegando gran parte delle produzioni mondiali all’Asia si determina, inoltre, il fatto che queste aree richiedano con sempre più autorità una quota sempre maggiore di energia e di materie prime, facendone lievitare i prezzi e ostacolando lo sviluppo delle produzioni ancora rimaste in Occidente.
Ora la guerra tra Russia e Ucraina ha reso ancora più evidente questo ulteriore limite della globalizzazione: per rendersene conto basta vedere quanto è cresciuto il prezzo del gas e dell’elettricità.
L’Unione Europea deve differenziare il più possibile i Paesi fornitori di energia, favorire lo sviluppo della produzione di energie rinnovabili e del nucleare sicuro in seno agli Stati membri, richiamare sul proprio territorio le produzioni strategiche.
La globalizzazione non è più il nostro futuro. Per fortuna.
Francesco Paolo Sgarlata
Editorial Director