Interview by Francesco Paolo Sgarlata |
Davide Giacalone è un illustre giornalista e saggista che fin dal 1980 ha pubblicato numerosi libri tutti denotati dal forte impegno politico e sociale.
“Viva l’Europa viva” è una delle sue ultime fatiche: un libro intenso e molto interessante che, naturalmente, ci ha spinto a porre all’Autore alcune domande di approfondimento.
Europa a più velocità. Cosa ne pensa?
Che si equivoca molto, su questa possibile condotta. Si ingenerano anche futuri risentimenti, con l’idea che si voglia lasciare indietro qualcuno. Invece occorre partire dalla mera constatazione dell’esistente: in Europa ci sono già, da molti anni, non due, ma più velocità. C’è l’Ue e c’è l’Uem; c’è Schengen e c’è il Consiglio d’Europa; e così via. Le tante velocità si sovrappongono e non combaciano, convivono e convivranno. Né si tratta di una malformazione che prese corpo nel tempo, perché fu vista e prevista da quanti, federalisti convinti, parlavano esplicitamente di “Europa a geometria variabile”.
Posto ciò, che non è per niente un dettaglio secondario e va ricordato per non alimentare illusioni e delusioni, quello di cui si parla oggi è, almeno in parte, diverso: l’Ue è molto cresciuta e si è allargata, in tempi che taluni considerano troppo veloci, dimenticando che i tempi sono stati quelli dettati dalla storia, oltre che dalla vittoria dell’Occidente e delle democrazie sui dispotismi che, troppo a lungo, hanno chiuso grande parte d’Europa in una scatola d’arretratezza e dittatura. Grande e larga fa più fatica a integrarsi maggiormente. Il lavoro fatto per favorire l’inclusione ha rallentato quello dell’integrazione. Domani sarà letto come un successo, oggi, naturalmente, lo viviamo come un problema. Da qui l’idea: dentro i confini dell’Ue, e specialmente dentro i confini dell’Uem, se ci sono Paesi disposti a fare subito passi ulteriori verso l’integrazione (della difesa, ad esempio), che procedano pure, senza né aspettare né escludere gli altri. Si tratta, in questo senso, solo di non costringere tutti ad andare alla velocità dei più lenti. Anche questi, però, quando saranno pronti ad accelerare, potranno mettersi in pari.
Due dei problemi maggiori che l’Unione Europea deve fronteggiare sono l’immigrazione e la sicurezza. Non dare risposte concrete a queste istanze molto forti di una larga parte della popolazione europea significa alimentare i populismi, è d’accordo?
Significa essere incapaci e, quindi, fornire argomenti agli avversari. La cui esistenza non deve essere vista come un dramma, anzi: l’Ue è un successo, è il primo mercato al mondo, la seconda potenza commerciale del mondo (ad un’incollatura dalla Cina e ben sopra gli Usa), il posto più ricco, libero, sano e longevo del pianeta, è del tutto ovvio che abbia dei nemici. Ed è ovvio che ne abbia anche al proprio interno, come ieri ebbero nemici le democrazie e il mercato capace di creare ricchezza, perché ci sarà sempre chi considera la libertà e il benessere quali elementi corruttivi, o chi pensa di potere raccontare la favola secondo cui chiudendosi dentro casa e sigillando le finestre si potrà respirare meglio. Ed è significativo che tutti gli antieuropeisti d’Europa abbiano trovato nel Parlamento europeo la loro serra politica, il solo posto dove entrare ed essere alimentati. Questo non è un controsenso, ma una vittoria politica e culturale di quel Parlamento.
Come gestire il problema immigrazione?
E’ molto più facile di quel che si crede. E’ molto più facile della gestione degli squilibri economici e monetari, interni all’Ue e all’Uem. Diventa difficile perché si carica di zavorra ideologica e chiasso propagandistico. Liberiamocene e guardiamo all’essenziale: i confini interni all’area Schengen hanno un valore amministrativo e, salvo casi d’emergenza, sono più teorici che pratici; i confini veri sono quelli che separano l’area Schengen dall’esterno; i Paesi i cui confini sono esterni all’area Schengen sono quelli che presidiano i confini di tutti gli altri europei. Se continuiamo a ragionare su come dividerci gli emigranti non ne verremo mai a capo, perché chi ha confini esterni continuerà a sentirsi più esposto e chi ha confini interni continuerà a non fidarsi di chi amministra gli ingressi e i (più teorici che reali) respingimenti. Entrambe hanno torto e ragione, sicché, appunto, non se ne esce.
Cambiamo schema: siccome quelli esterni sono confini di tutti vanno amministrati, per quel che riguarda gli interessi di tutti (quindi l’emigrazione, non certo il turismo), in comune: una sola legge, una giurisdizione, una amministrazione. A Lampedusa deve esserci una legge Ue, un giudice Ue e delle guardie di frontiera Ue. Gli emigranti che arrivano, o che si traggono in salvo, devono essere portati in zone che non rientrano sotto la sovranità del Paese in cui si trovano, ma che siano sotto quella europea, comune. Nessuno deve più fidarsi di nessuno. Nessuno deve fare il lavoro di altri. Tutti compartecipano di un problema comune. I cittadini osservano e imparano a considerare l’Ue una tutela, non una seccatura.
Uno dei più grandi problemi dell’Unione Europea è che viene avvertita dalla popolazione soprattutto come rigorosa istituzione economico-finanziaria, mentre dovrebbe e deve essere molto di più: ritrosia dei governi nazionali a cedere porzioni del proprio potere?
C’è anche del comico: l’Ue è accusata, a turno, d’essere una terra di liberismo selvaggio, oppure d’essere una specie di Unione sovietica europea, per eccesso di regole, sconfinanti per ogni dove. Prima di stabilire se è vero o meno occorre decidersi: o l’una o l’altra.
La percezione dei cittadini è un derivato di due cose: a. il dare per scontato che il mondo sia come quello in cui viviamo, sicché si può sempre avere di più, ma non è in pericolo quel che si ha; b. il fatto che le forze politiche parlando d’Europa o per le gnagnere retoriche e propagandistiche, oppure per i vincoli economici, presentati come un giogo. Invece: 1. viviamo in pace da un tempo più che doppio rispetto a quello che ci volle per iniziare e finire due guerre mondiali; 2. i vincoli non sono quelli dei parametri, ma quelli che impongono i mercati: se non fosse proibito salire sui grattaceli e buttarsi di sotto non per questo potrei farlo e volare, giacché il vincolo non è il divieto, ma la forza di gravità.
La percezione distorta ha dei responsabili. Le forze politiche, certo, ma anche le cattedre, gli intellettuali, i mezzi d’informazione. A forza di dire e ripetere sciocchezze, a forza di provare a cancellare la storia e il dolore dalla realtà, si creano percezioni irreali. Fino al punto di non sapere più valutare quanto preziose siano le cose che si hanno, sebbene si voglia (e si debba) migliorarle e accrescerle.
I mercati asiatici sono un’opportunità per gli imprenditori o un pericolo per i lavoratori europei?
Sono un’opportunità per le imprese e per i lavoratori. Con la loro crescita sono aumentate le nostre esportazioni. Il fatto che non abbia senso competere sul fronte del costo della manodopera, che, quindi, si debba puntare su prodotti a maggiore valore aggiunto, anche di tecnologia e innovazione, deve essere visto come un bene, per imprese e lavoratori.
Non confondiamo gli squilibri interni ai nostri Paesi, che sono nostra responsabilità, con il fatto che in un mondo più ricco si vive tutti meglio. E non dimentichiamo che in questo mondo aperto i risparmiatori sono cittadini senza confini, il che ha portato nelle loro (nostre) tasche anche risultati assai interessanti.
Le decisioni prese nei vertici tra alcuni leader europei sembrano togliere legittimità e autorevolezza agli organi a ciò preposti all’interno dell’Unione Europea. Da un lato si accusa l’UE di non decidere, ma si ha l’impressione che non le sia dia gli strumenti e il potere per poter decidere. Lei ne ha scritto nel suo ultimo libro…
Il metodo intergovernativo deve essere abbandonato. Nuoce gravemente alla salute di tutti, compresi i protagonisti. Si deve usare solo il metodo istituzionale, quindi collettivo.
Il contrasto fra francesi e tedeschi era costato, assieme ad altri fattori, due guerre mondiali. Naturale che l’Europa pacifica e unita cresca sul rapporto fra Berlino e Parigi. Ma quel mondo è finito con il crollo dell’impero sovietico. Non capirlo e non trarne le conseguenze è una grossa colpa politica.